Pennini. Io mi chiedo da sempre perché,… perché diavolo dovrebbe valere qualcosa la mia vita?
Dopotutto una volta morta, anche messa sotto da un’apecar in corsa, che cosa cambierà nel mondo?
La vita umana stessa potrebbe svanire domani e a nessuno nell’universo potrebbe importargliene una beata minchia.
Eppure sono ancora qui.
Cosa mi impedisce di prendere una corda e tagliare corto?
Il primo motivo è molto semplice: detesto la sensazione di soffocamento… se proprio volessi farla finita vorrei farlo in modo dolce, una bella morte nel sonno.
Ah! questo sì che è lusso.
Ma torniamo al motivo per cui non so che valore dare alla vita.
Ci ho pensato tantissimo in questi anni… e la risposta migliore che sono riuscita a darmi è: Non lo so.
Esatto.
Che ne so io del valore della mia vita? Non so nemmeno il valore generale dell’esistenza stessa. E chi sono io per saperne del perché dell’esistenza?
Proprio perché non so quale sia il valore della vita, è mio dovere tenermela finché non arrivo alla conclusione che sia più esaustiva possibile.
Quello che mi spinge ogni giorno alla fin fine è una sensazione: la sensazione del falso vuoto che rappresenta il mistero della mia esistenza.
Non sono ancora riuscita a darci un nome o una forma, ma forse è proprio per questo motivo che devo tenermela sta vita.
Voi mi direte: a che cosa è servita la vita di Hitler?
Signori miei Hitler era solo la punta dell’icemerd del nazionalsocialismo. Lui non ha fatto altro che mettere nero su bianco i desideri dei tedeschi, il resto è stato fatto tutto da milioni di tedeschi, pienamente d’accordo con il suo operato.
Certo fra loro c’era chi dissentiva, ma veniva prontamente fatto fuori.
E che dire di Martin Luther King? Stessa cosa!
Queste persone non sono altro che il vertice di qualcosa di ben più profondo che si radica all’interno delle masse.
Perciò il problema sono le masse?
Anche, ma non solo.
È un po’ come la farina e il lievito; quando al giusto quantitativo di farina si aggiunge del fresco lievito di birra, ecco che il pane cresce.
Allo stesso modo, tutto ha un significato, ma viene letto dalle persone come loro preferiscono vederlo… accade così.
Un detto veneto dice: “ Sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu.”
E(O)rrore!
Nella comunicazione non si può semplicemente mettere carne al fuoco e sperare che la gente capisca.
Certo ci sono condizioni e condizioni, ma come ci insegna la pubblicità, la comunicazione può essere calibrata a prova di stupido, al punto da permettere la massima comprensione in tempi record. Ovvio nell’ambito di marketing si riduce tutto a slogan per vendere lo shampoo all’argilla radioattiva, ma questo è marketing. Nella comunicazione in generale è fondamentale capire a che pubblico ci si sta rivolgendo e che cosa vogliamo che il pubblico capisca dalle nostre parole.
Per esempio, il mio scopo nel blog è stimolare riflessione, ergo non potrò fare slogan riduttivi. Infatti non pubblico più nulla di complesso in facebook, perché ritengo che una parola buttata senza argomentazione sia solo uno spreco di tempo e un modo come un altro per avere reazioni a livello viscerale, scatenando botta e risposta violenti, possibilmente con un pubblico che fa il tifo.
Non è il mio modo di essere. Davvero ci ho provato per anni a comunicare all’interno della mia pagina. Poi ho capito che era meglio aprire una pagina web.
Ed oggi sono qui. Scatenerò mai la farina giusta?
Stessa risposta sull’esistenza: eh non lo so!
Allora la mia reazione è sempre la stessa, calibro il tiro, capisco meglio come fare e vado avanti.
Non è facile per me come non lo è per nessuno.
Tutti abbiamo un obiettivo nella vita, più o meno complesso.
Ma la vita ha un obiettivo?
Sarebbe da chiederlo alla vita, ma temo che mi risponderebbe con qualche reazione chimica, un po’ di puzza di acido solforico e una equazione matematica.
E cosa sono una reazione chimica o una equazione matematica se non delle trasformazioni?
La vita, credo abbia lo stesso obiettivo di ogni essere vivente: lasciare un segno del proprio passaggio in più forme diverse.
Ognuno di noi vuole farsi riconoscere, chi in un modo chi nell’altro.
Hitler faceva così, lo faccio io, lo fate voi, solo che tutti abbiamo strumenti, mezzi e modi diversi per farlo.
Ma il risultato finale è che facciamo tutti la stessa cosa: compiamo azioni.
Forse dobbiamo preservare la nostra forma umana per poter far vincere questo piccolo pianeta in mezzo al freddo e immenso universo, per qualcosa che nemmeno sappiamo di dover affrontare.
Sta di fatto che ognuno di noi vuole il suo posto nel mondo.
Non ha senso lasciare un segno, eppure lo facciamo lo stesso.
Non mi accontenterò mai della semplice risposta in cui diciamo che “ vogliamo lasciare un segno ”.
un segno a chi? Per cosa?
A che serve lasciare un segno?
E di nuovo.
Non lo so.
Vedete come succede la cosa?
Più cerchiamo di dare un significato alle cose e più il mistero s’infittisce.
Non ha senso cercare significati profondi, eppure lo facciamo ogni giorno di più. Intere schiere di filosofi ci hanno ragionato sopra, e l’unica cosa che è cambiata nel frattempo è che non si usano più tavolette di cera su cui incidere con un cuneo, ma tablet e smartphone.
Forse ha bisogno di rimanere un mistero e noi cocciutamente vi correremo incontro, nella speranza di poter essere un po’ più complessi e lasciare segni ancora più maestosi del nostro passaggio.
State sereni. Questo circolo vizioso finirà solo quando l’universo stesso smetterà di esistere, e allora tutto questo magico nulla tornerà da dove è venuto: ombre e polvere.
Grazie a Frank Cone per l’immagine
Sempre vostra, Iro Järvinen
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